come molti già sapranno nell’ultimo Decreto Milleproroghe è stato inserito il bonus psicologo. In un post precedente, che potete andare a rileggere, avevo spiegato in cosa consiste.
In sintesi si tratta di un voucher del valore di 600 euro di validità annuale che può essere speso, da coloro che ne faranno richiesta, per accedere ad un percorso di psicoterapia presso psicoterapeuti privati regolarmente iscritti all’albo. Chiaramente la cifra stanziata non copre le spese di un intero percorso ma vuole essere un aiuto almeno in fase iniziale.
Il fatto è che molti mi chiedono quando e come potranno far richiesta del bonus.
Purtroppo bisogna aspettare il decreto attuativo perché entri in vigore e si parla di una data tra Aprile e Maggio. Dopodiché saranno anche spiegate dal Ministero competente quali saranno le modalità per far richiesta.
È stato anticipato che servirà un certifico del medico di base che attesti la necessità del paziente di iniziare un percorso di psicoterapia.
In attesa quindi di nuovi sviluppi e info più precise vi ricordo che l’equipe del Centro di Psicoterapia Scaligero si rende disponibile ad accettare pazienti che usufruiranno del bonus psicologo perciò RESTATE CONNESSI!
Ciao a tutti, in questo articolo vorrei parlarvi di un grande insegnamento che ho ricevuto su come svolgere il mio lavoro, che può diventare un piccolo aiuto per chi si trova in difficoltà e volesse rivolgersi ad uno psicoterapeuta.
Venerdì scorso ho partecipato al workshop introduttivo del ciclo “Clinica della mente ossessiva”,condotto dal Prof. Francesco Mancini.
Non voglio entrare nello specifico del corso per non annoiare, con argomenti troppo tecnici, chi avrà voglia di leggere questo post ma racconto che lo scopo principale della giornata è stato comprendere lo schema di funzionamento della mente di un paziente con disturbo ossessivo compulsivo (DOC).
Per chi non lo conoscesse il prof. Mancini, è uno dei massimi esperti del DOC e, nonostante lo conosca da anni, ho sempre qualcosa da imparare da lui. C’è un concetto in particolare, che ha espresso venerdì, che vorrei trasmettere al pubblico e anche se non ricordo precisamente le parole diceva questo: “Insisto così tanto sul fatto che riusciate a comprendere la mente del paziente perché se non ci riuscite, anche se conoscete le strategie e le tecniche d’intervento migliori del mondo, non saprete applicarle”.
In sostanza quello che ci voleva far capire è che per diventare dei bravi psicoterapeuti non basta conoscere le tecniche più efficaci e innovative, prima di tutto è fondamentale conoscere a fondo chi ci sta di fronte: cosa pensa, come si sente, come si comporta, che scopi ha, che bisogni ha e così via. Conoscere tutti questi aspetti e saperli organizzare secondo un senso logico significa comprendere davvero la mente di qualcuno.
Da quando ho intrapreso la mia carriera professionale applico con convinzione questo insegnamento e cerco di trasmetterlo agli psicologi e specializzandi più giovani perché capire veramente le persone è il primo passo per poterle aiutare ma ora giro questo discorso a chi sta dall’altra parte e cerca un aiuto in campo psicologico.
Premesso che ci si rivolga sempre e solo ad un professionista che possieda una laurea, un’abilitazione alla professione e una specializzazione, un altro aspetto importante da considerare è trovare qualcuno che sia veramente capace di accogliervi, capire cosa vi succede e di spiegarlo con chiari e semplici parole. Se in questa fase vi sentirete riconosciuti e potrete dire a voi stessi “finalmente qualcuno che sa come mi sento, cosa penso e perché”, allora è possibile che abbiate trovato il terapeuta giusto per voi. Se vi sentirete davvero compresi è probabile che sarete anche più disposti ad affidarvi alle sue cure. Quindi vi invito a tener presente questa piccola regoletta qualora aveste bisogno di un aiuto.
Per oggi è tutto ma vi rimando al mio prossimo articolo sul corso di formazione a cui parteciperò questo weekend, dal titolo “Il ritiro sociale in adolescenza”, altro argomento di cui mi occupo da tempo e di assoluta attualità. Mi raccomando allora……restate connessi!
Nel mio precedente articolo avevo promesso che mi sarei addentrata di più nella definizione di Ritiro Sociale ed eccomi qui.
Cercherò di
spiegarlo nel modo più semplice e chiaro perché come vi avevo anticipato si
tratta di una dimensione complessa.
Per dimensione si intende un insieme di caratteristiche che possono essere misurate sia per qualità che per quantità e nel caso del ritiro sociale possono essere le motivazioni, le emozioni e i comportamenti ad esso connessi.
Il Ritiro Sociale consiste in pratica nel sottrarsi gradualmente alle opportunità di interazione sociale fino alla chiusura totale al mondo, ovvero quei casi in cui una persona si chiude in una stanza senza più vedere nessuno, neanche i propri familiari, per molto molto tempo, mesi o addirittura anni.
Il Ritiro Sociale è un aspetto che può presentarsi in diverse patologie (depressione, fobia sociale, autismo …) per questo è definito transdiagnostico.
La traiettoria di chiusura alla società di solito nasce presto, a volte già nell’infanzia, e dipende da diversi fattori individuali (per es. la timidezza e le abilità sociali), relazionali (per es. la validazione e il giudizio degli altri) e ambientali (per es. il tempo e la numerosità del contesto). Questi fattori possono diventare fattori di rischio o fattori protettivi a seconda di se, quanto e come si presentano. Per esempio avere sufficienti abilità sociali può essere un fattore protettivo rispetto al ritiro sociale.
E’ importante considerare le motivazioni interne che spingono il soggetto a ritirarsi: disinteresse sociale o timidezza conflittuale. Vi sono infatti tre tipi di ritiro sociale:
1) persone
che avrebbero interesse a stare con gli altri ma che per ansia e vergogna non
ci riescono;
2) persone
che provano un senso di estraneità e non appartenenza che inibisce il desiderio
di stare con gli altri e li pone in una condizione del tipo “ci sto ma
anche no”;
3) persone
che sono distaccate e stanno bene così.
Si può dedurre quindi che non sempre il ritiro sociale è una patologia, a volte può essere vissuto come una scelta, un desiderio. Pensate ad esempio al bambino che gioca da solo o all’adolescente che si chiude in camera sua: probabilmente il primo sta sviluppando delle capacità e il secondo sta costruendo la sua identità. Di conseguenza per capire se alcuni segnali sono sintomo di una patologia è importante affidarsi ad un professionista che sappia valutare il grado di adattamento del soggetto che si ritira.
Visto che segni e sintomi del ritiro sociale possono manifestarsi già nell’infanzia e nell’adolescenza, senza cadere in facili allarmismi, qualora ci fosse un dubbio la cosa migliore è rivolgersi ad una psicoterapeuta che possa una corretta valutazione e ricordate sempre che prevenire è meglio che curare!
Ora vi lascio riflettere su questo punto e vi rimando al mio prossimo articolo su questo interessante argomento. Se avete domande e vostre riflessioni da condividere sono sempre ben accette. Stay tuned!
Come si presentano i Domestic Offenders e quale possibile trattamento?
Relazione presentata al convegno Sitcc di Verona sulla violenza domestica
Al link sottostante troverete la presentazione del trattamento sui Domestic Offender secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, Popolo et al.,Corpo, Immaginazione e Cambiamento- Cortina 2019).
Ci sono alcuni spunti interessanti su come si presentano i Domestic Offenders in terapia e sulla modalità di trattamento
Rassegna “Pillole di psicologia”. In questo filmato la dr.ssa Pinton Michela vi parla della possibilità che i disturbi d’ansia si presentino in comorbilità con altri disturbi e come ci si approccia nel setting terapeutico se si presenta questa eventualità. Buona visione!
Questo è forse l’unico pregiudizio che viene mosso alla mia categoria professionale che in parte capisco e accetto. Bisogna ammettere che in Italia, per molti anni, si è sentito parlare solo di terapie di lunghissima durata, a volte addirittura decennale o ventennale. Ma è così anche oggi???
E’ assolutamente vero che esistono percorsi psicoterapeutici che si protraggono per molto tempo (di solito fanno riferimento ad un particolare approccio), ma è anche vero che, nonostante il ritardo rispetto ad altri paesi, finalmente anche in Italia sono riconosciuti e stanno prendendo sempre più piede anche altri modelli, di ben altra durata temporale. Probabilmente ciò accade anche in virtù del cambiamento dei tempi e delle diverse necessità da parte della società. Non starò ora a farvi l’elenco di tutti gli approcci psicoterapeutici e delle loro tempistiche perché, come al solito, preferisco parlare solo di ciò che conosco direttamente e applico nel mio lavoro.
Siccome mi rifaccio al modello teorico della psicoterapia cognitivo comportamentale, posso affermare che secondo questo approccio un percorso terapeutico può durare tra i 4 e i 12 mesi a seconda del caso. Si tratta quindi di un percorso a breve termine e ciò è possibile perché terapeuta e paziente collaborano per la risoluzione di un problema presentato qui ed ora. I colloqui sono solitamente a cadenza settimanale e più che la durata della terapia, aspetti importanti sono la costanza e la continuità. Ovviamente non tutti i casi sono uguali e quando il livello di gravità è alto il tempo di cura può prolungarsi oltre l’anno. In questi casi di solito si integrano anche altre forme di trattamento e la farmacoterapia, se necessari.
Con queste poche e semplici informazioni spero che il punto di vista sulla durata della psicoterapia posso cambiare. Prima di salutarvi però ci terrei a sottolineare una cosa: tempi brevi di psicoterapia sono possibili ma un’unica seduta NO! Lo dico perché capitano pazienti che chiedono un unico colloquio nella speranza di avere una soluzione immediata ai loro problemi, ma ciò non è possibile. Noi psicologi e psicoterapeuti non siamo maghi, non leggiamo la mente, non abbiamo bacchette magiche o sfere di cristallo per risolvere in un colpo solo i problemi della gente. Se avessimo in tasca la soluzione di ogni problema sarebbe una fortuna per tutti e il mondo sarebbe diverso, ma questi sono solo sogni ed illusioni. Quello che possiamo realisticamente fare è mettere a disposizione le nostre conoscenze per aiutare le persone a vedere i problemi da un altro punto divista e trovare da sé delle soluzioni oltre che migliorare il benessere e l’equilibrio interiore. Il massimo che possiamo fare in una sola seduta è inquadrare molto bene il problema che ci è stato esposto dal paziente e descriverlo in maniera puntuale in modo che possa avere una visione più chiara di sé e della sua situazione da cui poter partire. Il percorso terapeutico se necessario viene dopo e richiede per forza più tempo. Le “terapie fast food” non esistono, tenetelo a mente!
In questo articolo vi svelerò i segreti del mestiere. Scopriamo insieme se e come uno psicologo può manipolare la mente delle persone.
In realtà questo pregiudizio mi sembra alquanto superato. E’ passato molto tempo da quando ho sentito una frase del genere. Nei pochi casi in cui mi è stata rivolta, magari anche solo come battuta, ho sempre posto questa domanda: “Secondo te come posso fare a manipolare la mente delle persone?” Di solito le persone danno risposte molto vaghe del tipo “Eh… che ne so io come fai? Tu sai i trucchi del tuo mestiere!” oppure “Magari mi ipnotizzi e mi fai fare quello che vuoi!”
Bene, sveliamo allora i trucchi del mestiere, sono convinta che informare, spiegare, comunicare il più possibile sulla professione dello psicologo sia molto importante per superare dubbi e timori.
Che modi può avere uno psicologo per manipolare la mente delle persone?
Non può usare dei farmaci perché non è un medico e quindi non è abilitato a prescriverli e somministrarli.
Per la mia specifica formazione non utilizzo l’ipnosi come tecnica terapeutica, ma so che serve una formazione specifica per poterla utilizzare e che non tutti gli psicoterapeuti la praticano. Alcune persone credono consista in una perdita di coscienza, dove il terapeuta può controllare la mente del paziente ma non è così. Si tratta di un’esperienza di trance in cui non può venire modificata la personalità, la volontà e i principi morali della persona che si sottopone a questa pratica.
La parola, il colloquio, questo sì è il mezzo utilizzato dagli psicologi e psicoterapeuti per svolgere il proprio lavoro. Il colloquio in psicologia è uno strumento di conoscenza che utilizza la comunicazione allo scopo di raccogliere informazioni con fini di ricerca, di diagnosi o di presa in carico per un determinato trattamento. Il colloquio tra uno psicologo e colui che lo consulta può avvenire solo se c’è una motivazione e un interesse autentico da parte di entrambi. Se una persona ha paura di essere manipolata mentalmente da uno psicologo non credo che chieda un colloquio. Chi invece ha provato questa esperienza penso possa rivelare di cosa si tratta ed essere più convincente di me nel spiegarlo, visto che io sono di parte.
Insomma credo davvero che si tratti solo di suggestioni, fantasie o chiacchiere poco attinenti con la realtà. Le persone che si rivolgono agli psicologi e si sottopongono a delle sedute o a percorsi di psicoterapia sono in continuo aumento ma di solito per motivi di privacy non raccontano la loro esperienza. Io però le inviterei tutte a descrivere come si è svolto il loro colloquio, senza entrare nello specifico dei motivi che le hanno portate a chiedere un consulto. Sono convinta che i loro racconti sarebbero molto più chiarificatori e istruttivi delle mie parole. Perché quindi non provarci? Potete usare anche questo spazio per raccontarvi, ne sarei felice. Buona giornata a tutti.
Caro lettore, se sei un genitore o un insegnante o qualcuno che comunque ha a che fare con bambini/adolescenti, forse ti sarà capitato di chiederti “Come si fa a capire se un bambino/adolescente ha un problema psicologico?” Ma come mai ti sei posto questa domanda? Vediamo insieme alcuni motivi che ostacolano la possibilità di comprendere se siamo in presenza di una psicopatologia del minore.
Facciamo un passo indietro. Se ti sei posto la domanda di cui sopra, magari è successo perché tuo figlio o un tuo alunno ha avuto un problema di questo tipo, magari è passato del tempo prima che tu te ne accorgessi, magari è successo a qualcuno che conosci e semplicemente ti domandi se tu saresti in grado di riconoscere i segni. Qualunque sia il motivo per cui ti sei fatto questa domanda, ciò che salta all’occhio è la difficoltà degli adulti ad individuare e comprendere i segni precursori di un disturbo mentale nell’età dello sviluppo. Spesso mi capita d’incontrare genitori del tutto inconsapevoli delle difficoltà del figlio che arrivano in terapia su segnalazione della scuola oppure dopo lungo tempo quando il problema è diventato grave e persistente. Questo non significa che siano persone insensibili o incapaci anzi, tanto è vero che spesso si sentono molto responsabili di non essersi attivati per tempo. E’ più probabile che si tratti di persone poco informate su certi argomenti e che non siano a conoscenza di alcuni aspetti che caratterizzano la psicopatologia dell’età evolutiva.
Con questo breve elenco spero di sollevare un po’ gli adulti da dubbi e timori sulla possibilità di accorgersi di un problema di tipo psicologico in un minore e di dare qualche dritta rispetto a ciò che si può osservare.
Cerchiamo di ricordare sempre che:
Solo alcuni disturbi sono palesemente manifestati dai bambini, come ad esempio i disturbi del comportamento, mentre altri, che appartengono ad una sfera più intima, come ad esempio di disturbi d’ansia, sono più difficili da rilevare;
Solo a partire da una certa età, di solito dai 6/7 anni in su, i bambini riescono a comunicare il proprio disagio psicologico perché solo a partire da quell’età hanno raggiunto una certa maturità cognitiva, emotiva e determinate competenze nella relazione e comunicazione;
In età infantile/adolescenza segni e sintomi possono essere comuni a più patologie oppure una stessa patologia può avere segni e sintomi anche molto diversi;
Durante lo sviluppo gli individui subiscono forti trasformazioni e non sempre sono sintomo di un problema o di una patologia ma si tratta semplicemente di cambiamenti transitori. Per questo motivo è importante tenere sempre presente il funzionamento generale e le capacità di adattamento del soggetto;
Visto che la richiesta di aiuto ad uno psicologo/psicoterapeuta proviene dagli adulti di riferimento del minore, dipende in parte dalla loro capacità di interpretare i segni di sofferenza e questa capacità è condizionata dalle loro caratteristiche (ad esempio essere un genitore ansioso e iperprotettivo o meno) e dal tipo di rapporto col minore;
Esistono pochi strumenti standardizzati per far diagnosi e spesso non sono di tipo descrittivo ma si basano sull’interpretazione del professionista;
Ciò che è osservabile è il comportamento. E’ possibile osservare se ci sono dei cambiamenti nel comportamento e nelle abitudini dei bambini/adolescenti e cercare di capire a cosa possono essere dovuti. Non si parla di cambiamenti di qualche giorno ma di comportamenti insoliti che si protraggono a lungo nel tempo, con una certa frequenza e intensità. Se tali cambiamenti non possono essere ricondotti a motivi fisici come ad esempio una malattia o all’assunzione di farmaci, allora può essere utile sondare la presenza di un disagio di tipo psicologico.
Con questo vademecum, se dopo attenta osservazione, credete che un bambino/adolescente vicino a voi abbia un problema di tipo psicologico allora è importante rivolgersi nel più breve tempo possibile ad un professionista perché nell’età dello sviluppo prima si interviene più alte sono le probabilità di remissione dei sintomi e più breve è il tempo di guarigione.
Nel prossimo articolo parleremo proprio di questo, ossia della psicoterapia cognitivo comportamentale per l’età evolutiva. Se nel frattempo avete domande o commenti, postate pure. A presto.
Il 10 Aprile presso la sala consigliare del Comune di Soave ho parlato di violenza domestica nelle relazioni affettive. Di seguito in sintesi un breve estratto dell’intervento con le informazioni più salienti ed il modello di trattamento proposto:
La violenza domestica ha un impatto sociale, psicologico ed economico significativo e pervasivo. Si definisce violenza domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo paura e limitandone la libertà personale. In Italia circa 1 donna su 3 tra i 16 ed i 70 anni riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. I partner attuali o ex partner commettono le violenze più gravi, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Nella comunità internazionale il 38% delle donne uccise lo sono per mano del proprio compagno. L’intervento psicoterapeutico ha bisogno di considerare l’eventuale presenza di disturbi e/o tratti di personalità, in particolare alcuni tratti relativi a disinibizione, antagonismo e distacco sono positivamente associati a questa tipologia di offenders. Inoltre essere di giovane età e avere un disturbo correlato all’uso di alcol oppure la presenza di disturbo di personalità aumenta la probabilità di agire violenza all’interno della coppia. (Misso, Dimaggio & Schweitzer, 2017).
Molti uomini agiscono la violenza domestica in modo impulsivo reagendo ad emozioni dolorose che non sanno nominare e di conseguenza poi regolare. Inoltre si trovano ad agire nelle relazioni con la partner guidati da schemi interpersonali che non sanno riconoscere. Promuovere la Metacognizione è uno degli obiettivi della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI, Dimaggio G., Popolo R. et al 2013) per favorire l’interruzione del comportamento violento e la promozione del cambiamento. In particolare lo scopo del modello TMI è di elicitare fin dall’inizio gli episodi narrativi di violenza domestica per focalizzare l’intervento sugli antecedenti dell’aggressività che nella formulazione condivisa del funzionamento collochiamo nella risposta del sè alla risposta dell’altro. Ad esempio: “Desidero essere apprezzato/stimato, la partner mi critica e mi svaluta – mi sento umiliato, schiacciato/sottomesso (risposta del sè) – reagisco con rabbia e la attacco”. A partire poi dalla formulazione condivisa del funzionamento si procede con due tipi di interventi, il primo intervento ha lo scopo di favorire possibili connessioni con lo schema emerso per lavorare sulla differenziazione tra gli schemi interni e la realtà esterna, il secondo ha lo scopo di lavorare sulla regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro cercando di promuovere alternative all’aggressione per lenire lo stato affettivo doloroso.