Questa estate, presso i Centri Estivi del CUS Padova, ho tenuto degli incontri rivolti ai genitori su tematiche che riguardavano la psicologia dell’età evolutiva.
Riprendendo la serie “Pillole
di psicologia” vorrei riproporvi alcuni stralci di quegli incontri.
Oggi vi introduco la prima parte dell’incontro NO PANIC. L’obiettivo dell’incontro era fornire utili informazioni sull’emozione ansia e la sua funzione, su quando e perché può diventare un problema e su come trovare delle soluzioni appropriate, in un’ottica di educazione e prevenzione della salute psicologica dei bambini/adolescenti.
In questo breve video vi parlerò delle emozioni in generale e in particolare della Paura/Ansia.
Buona visione e se volete lasciate pure un vostro commento e domanda.
Oggi niente articoli “didattici” su qualche argomento di
psicologia come faccio di solito ma vorrei condividere con voi solo qualche
riflessione che mi è capitata di fare qualche giorno fa.
Sono una psicologa “itinerante”. Chi di voi mi conosce, sa
che lavoro su due città (in passato anche su 3 e 4), Padova e Verona e quindi
mi capita di passare molto tempo in macchina. L’altro giorno mi trovavo appunto
sull’A4 tra Verona e Padova quando alla
radio ho sentito la canzone “Mi fido di te” di Jovanotti.In particolare la mia mente si è soffermata su questa verso: “La vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare. Mi fido di te. Mi fido di te. Mi fido di te. Cosa sei disposto a perdere?”Su questa frase mi è partito un trip di pensieri che, per palese deformazione professionale, ho accostato al mio lavoro e visto che riguardava concetti di psicologia che possono essere utili a tutti, ho pensato di condividerli con voi.
Per ogni frase di
questo verso ho fatto delle considerazioni diverse ma che rientrano tutte nel
tema: come si può affrontare l’ansia?
Prendiamo la prima frase: “La vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare”.Non ho inteso questa frase in senso letterale quindi non parlerò delle vertigini come sintomo fisico. In questa frase ci ho visto un altro significato, ossia la possibilità che abbiamo tutti di vedere le cose da un altro punto di vista. Non avete idea di quanto sia importante nel trattamento dell’ansia aiutare le persone a sviluppare un pensiero alternativo rispetto alle proprie convinzioni. E’ un aspetto molto importante uscire dal proprio punto di vista e prendere in considerazione altre possibilità. Se si sviluppa questa capacità è possibile interpretare anche ciò che ci fa più paura in modo diverso e forse meno ansiogeno. Così anche la “vertigine” che rappresenta qualcosa che solitamente fa molta paura può essere interpretata invece come una spinta a buttarsi nelle cose, a correre il rischio. Correre il rischio……..ecco un altro concetto chiave quando si tratta l’ansia ma ve ne parlo più tardi.
Passiamo alla seconda frase: “Mi fido di te”.Del tema della fiducia nella mia professione vi avevo già parlato in quel ciclo di articoli su chi è e cosa fa lo psicologo. Se avete voglia potete andare a rileggerli. In ogni caso confermo il concetto che è importante per il paziente fare un atto di fiducia verso lo psicologo a cui si è rivolto, confidando nel fatto che lo possa aiutare. E’ giusto e opportuno verificare che il professionista in questione abbia tutte le carte in regola, laurea, abilitazione ed eventuale specializzazione ma bisogna tener conto che spesso un percorso terapeutico richiede tempo e che i risultati quindi non possono essere immediati. Per questo motivo si tratta di fare, per un certo tempo, atto di fiducia verso chi si è impegnato ad aiutare. Si tratta di affidarsi allo psicologo esattamente come ci si affida ad un medico, essendo convinti che si potrà ricevere un aiuto e che col tempo si risolverà il proprio problema.
Anche la fiducia comporta però un quota di rischio e così
arrivo all’ultima parte del verso di Jovanotti: “Cosa sei disposto a perdere?”Il rischio è proprio questo, avere la consapevolezza che si
può perdere qualcosa. Uno dei grandi
problemi delle persone ansiose è che non sono disponibili ad accettare neanche
una percentuale minima di rischio. L’ansia aumenta anche per questo motivo.
Se non si accetta nemmeno una quota di
rischio di sbagliare, di perdere, di soffrire restano solo due possibilità: evitare di esporsi a qualsiasi
rischio oppure cercare di controllare
tutto. Nel primo caso se non esporsi al rischio abbassa l’ansia ma
probabilmente si perdono tante occasioni come ad esempio avere una relazione
sentimentale, fare carriera, superare un esame e così via. I grandi scopi della
nostra vita ma anche i piccoli obiettivi, insomma tutto ciò che possiamo
desiderare o di cui abbiamo bisogno comprendono sempre la possibilità di non
riuscirci. Nel secondo caso si tende a controllare tutto non rendendosi conto
del dispendio di tempo ed energie che ciò comporta e soprattutto del fatto che
non è possibile controllare tutto. E’ un tentativo fallimentare in partenza.
Oltre all’ansia di riuscire a controllare tutto poi si aggiunge la delusione di
non esserci riusciti e di nuovo si perde ciò che si era desiderato.
Compito dello
psicologo è aiutare le persone ansiose quindi ad accettare almeno una quota
minima di rischio in ogni cosa che vorrebbero fare o ottenere. Si tratta di trovare un equilibrio tra il
buttarsi confidando nelle proprie capacità e accettare i propri limiti, la
propria vulnerabilità e fallacità.
Quante cose ancora mi verrebbe da aggiungere su questo argomento ma mi rendo conto che ho scritto già tanto e vi sarò venuta anche a noia per cui per oggi mi fermo qui e magari riprenderò il discorso un’altra volta. Ho già in mente un’altra canzone su questo tema. A presto dunque e se volete commentare o fare domande non esitate!
Questo argomento mi tocca
personalmente viste le mie esperienze professionali in diverse scuole del
Veneto. Cari lettori, in questo post vorrei aiutarvi a capire quale è attualmente il ruolo dello psicologo in
ambito scolastico e quali sono gli obiettivi a cui la mia categoria
professionale, ma non solo, tende a raggiungere.
L’Ordine degli Psicologi sia a livello regionale che
nazionale da circa vent’anni si sta battendo per l’inserimento dello psicologo
nella scuola italiana. Questo non è
un desiderio solo di noi professionisti ma una richiesta che, secondo le
indagini più recenti, arriva dal 61,3% della popolazione.
Vi faccio una premessa sulla situazione della scuola e sulle possibilità di intervento degli psicologi in questo momento. Dalle interviste agli insegnanti delle scuole italiane emerge sempre di più l’esigenza di un supporto maggiore da parte degli psicologi in relazione all’aumento di alcune difficoltà che riguardano la gestioni di classi sempre più problematiche. I diversi disagi degli studenti finiscono con l’influire pesantemente con lo svolgimento delle normali attività didattiche e quindi con l’apprendimento degli studenti. I disagi manifestati dagli alunni solitamente hanno a che fare con la scarsa tolleranza alle frustrazioni (sempre più diffusa), con l’eccessivo individualismo e con problemi emotivi e comportamentali. A fronte di queste difficoltà i vecchi metodi educativi sembrano non avere più efficacia.
Mentre nella maggior parte dei paesi europei lo
psicologo è regolarmente inserito in ogni scuola come dipendente della pubblica
istruzione, in Italia dal 2017 è aperto al MIUR un tavolo tecnico per valutare
l’ipotesi di fare altrettanto ma al
momento i lavori non sono ancora conclusi e siamo ancora lontani dal varare un
legge in proposito. Per questo motivo, al momento, lo psicologo scolastico in Italia è un libero professionista che lavora
in maniera autonoma e con contratti a progetto di tempi assai brevi. Questo
accade anche in virtù delle scarse risorse che vengono destinate al sistema
scolastico. I progetti di cui si
occupano negli ultimi anni gli psicologi a scuola riguardano: CIC
(sportelli d’ascolto), alfabetizzazione emotiva, educazione all’affettività e
sessualità, bullismo e cyberbullismo, abuso di sostanze e nuove dipendenze,
orientamento ed inoltre la stesura dei BES (bisogni educativi speciali) e la
presa in carico di casi di DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).
Potete capire da voi che un intervento così frammentato e limitato
da parte degli psicologi non riesce a supportare adeguatamente le necessità
complesse del mondo scolastico odierno. Ci sarebbe bisogno di una presenza
continua e quotidiana, esattamente come avviene negli altri paesi europei e
l’intervento dello psicologo non riguarderebbe più solo la gestione e
risoluzione di casi specifici ma si potrebbe estendere ad altre attività utili.
Vi voglio quindi esporre una panoramica
di proposte che, come categoria professionale, saremmo disposti a mettere
in campo, qualora ce ne fosse data la possibilità. Le attività che potremmo esercitare nell’ambito scolastico sono:
Formazione degli
insegnanti rispetto ai processi mentali
coinvolti nell’apprendimento e patologie specifiche dell’età evolutiva;
Formazione degli
insegnanti per creare programmi di
potenziamento delle risorse degli alunni e di piani educativi su misura;
Promozione del benessere scolastico e prevenzione del
disagio negli alunni;
Osservazione e
interpretazione delle dinamiche
relazionali all’interno delle classi al fine di favorire la costruzione di
un clima sereno in cui vi sia inclusione e riduzione delle discriminazioni;
Consulenza e
gestione dei rapporti tra scuola e
famiglia.
Secondo noi queste attività
potrebbero essere utili per migliorare l’esperienza di alunni, insegnanti e
genitori nell’ambito scolastico. Voi cosa ne pensate?
Quindi noi psicologi continueremo a batterci perché la nostra proposta diventi leggi e realtà ma abbiamo bisogno del contributo di tutti, di coloro che lavorano nelle scuole, delle famiglie e anche degli studenti per far sì che questo desideri si realizzi. Io nel mio piccolo continuo a fare ciò che posso perché accada presto e voi cosa fate o farete? Se vorrete lasciare un vostro commento o esprimere la vostra opinione, mi farà piacere. A presto con un altro post sulla psicologia scolastica.
anche questa settimana vorrei proporvi la mia risposta ad una domanda che mi è arrivata qualche tempo fa via mail da una mamma preoccupata rispetto ai comportamenti di autoerotismo della figlia di 6 anni. Probabilmente vi starete chiedendo se anche i bambini piccoli possono avere comportamenti di autoerotismo e se possono provare piacere. Ebbene sì! Ma qual è il significato di questi comportamenti? Leggete il seguito e forse vi farete un’idea. Se poi vi va di aggiungere un vostro commento o fare qualche altra domanda, postate pure. Buona lettura e a presto.
“Buon giorno sono la
mamma di A. Ho bisogno di comprendere un atteggiamento di mia figlia di 6 anni.
Lei quando è stanca, o quando io e mio marito bisticciamo, cerca di fare
“cavallino”, infatti adora andare a cavallo. Ciò che chiamo
“cavallino” mi sembra un atteggiamento non di gioco, ma un
massaggiare le parti intime. E’ normale, e cosa devo fare o dire quando lo fa?
Mio marito si arrabbia con lei, io cerco di farla smettere distraendola. Cosa
possiamo fare?”
Cara
mamma di A.
Non è insolito che i bambini usino dei comportamenti di autoerotismo a scopo consolatorio e per sentirsi meglio, grazie alle sensazioni piacevoli che ne derivino. Pertanto eviterei sgridate o punizioni che la bambina non comprenderebbe. Sarebbe confusa dal vostro atteggiamento negativo perché si chiederebbe cosa sta facendo di male. In effetti non c’è nulla di sbagliato in questi comportamenti, vanno solo indirizzati meglio. Dovete fare in modo che vostra figlia capisca che anche i litigi fanno parte della vita di coppia e che non intaccano l’amore tra di voi e dovreste anche aiutarla a capire che si possono affrontare in modo diverso i momenti spiacevoli della vita, per esempio parlandone con le persone care ed esprimendo le proprie paure. E’ proprio questo che vostra figlia sta facendo: sta esprimendo un disagio. Tocca a voi aiutarla a trovare un modo migliore e più utile per esprimere le sue sensazioni e i suoi pensieri. Buona giornata.
Qualche tempo fa ho condotto una serata sul tema “L’attaccamento madre/bambino” e successivamente ho ricevuto una mail da una mamma che era presente in sala.Vorrei condividere con voi la domanda che mi è stata posta e la mia successiva risposta. Buona lettura e se avete commenti, riflessioni o ulteriori domande da condividere postate pure!
Buon pomeriggio Dottoressa,
in relazione all’argomento di ieri sera sull’attaccamento madre – figlio, visto gli studi e la possibile “catalogazione” dei comportamenti dei bambini durante il distacco dalla figura di riferimento, mi permetta una domanda personale. Ho due maschietti di 9 e 6 anni, con caratteri diametralmente opposti ma anche accomunati da una poca autostima di fondo e timidezza ma forse propria dell’età. L’inserimento all’asilo è stato diverso per entrambi: il primo ha pianto molto e non si è mai lasciato consolare da maestre ed educatrici, uscito dall’asilo voleva solo venire a casa e solo io potevo andare a portarlo e a riprenderlo a scuola, ma passato il primo periodo, il senso del dovere o non so se una maturità accentuata, ha portato Riccardo a fare sempre ogni cosa bene e con rigore senza più una lacrima restando sempre e (difficoltà anche a mangiare alla mensa, solo la mamma è brava a fare il pranzo diceva!) comunque a distanza da carezze e abbracci delle educatrici (diffidente di natura).
Il secondo, grande capriccioso e allattato al seno fino ai due anni e mezzo, grande dittatore se mi è concesso (ancora ora durane la notte viene nel lettone) ha iniziato l’asilo presto proprio per eliminare l’allattamento al seno, per mio rientro al lavoro e perché bambino con grande autocontrollo dei bisogni fisiologici richiesti per l’inserimento precoce alla scuola materna. Ho praticamente lasciato che il fratellino più grande mi aiutasse nel suo inserimento a scuola che tutto sommato non è stato costellato da pianti di disperazione come il primo. Ora Le chiedo perché, nonostante quest’ultimo figlio (Francesco) conosca bene l’ambiente, le suore, i compagni, ancora tenderebbe a piangere quando lo lascio la mattina a scuola e perché se tardo nell’andare a prenderlo piange e crede che la mamma si sia dimenticata di lui?
Nonostante il lavoro sono una mamma molto affettuosa e presente. Vorrei solo trovare il modo per rassicurarlo e farlo rilassare e anche maturare in vista anche della scuola elementare di settembre.
La ringrazio sinora se potrà darmi attenzione….
Con stima.
Gentile Sig.a,
le premetto che in poche righe di mail non è possibile inquadrare bene una situazione e di sicuro, non conoscendo bene né lei né i bambini, sarebbe poco professionale da parte mia dare delle soluzioni. Peraltro il mio compito non è quello di dare risposte e soluzioni alle persone ma aiutarle a comprendere meglio gli eventi di vita vissuti e individuare strategie efficaci per affrontarli e superarli. Di conseguenza quello che posso fare per rispondere alla sua mail è offrirle degli spunti di riflessione con la speranza che l’aiutino a vedere le cose da un punto di vista alternativo o che le suggeriscano una visione nuova del problema.
Leggendo ciò che mi ha scritto mi sono venute in mente alcune cose:
riprendendo il discorso fatto al seminario i bambini nascono con delle caratteristiche di temperamento innate e specifiche ma, nel corso dello sviluppo, è l’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali che forma il loro carattere e la loro personalità. Questo per farle capire che buona parte la giocano le interazioni con gli adulti di riferimento e le esperienze di vita vissuta;
lei giustamente descrive i due bambini con caratteri molto diversi perché mostrano un temperamento e un modo di affrontare gli eventi diversi ma personalmente mi salta all’occhio il tratto comune che hanno, ossia la difficoltà a staccarsi da lei, ad opporre resistenza anche se con comportamenti differenti;
mi dà da pensare il fatto che nonostante il trascorrere di un tempo lungo questi bambini vivano ancora con disagio il distacco da lei e non riescano ad ingaggiare relazioni d’attaccamento con le persone che si occupano di loro (maestre);
mi viene infine questa domanda da farle…ma lei invece come vive il distacco dai suoi figli quando li porta a scuola e nel tempo che trascorre lontano da loro? E’ serena nell’affidarli alle cure delle maestre oppure no?
Forse la risposta a questa domanda potrebbe chiarire meglio la situazione e aprire la strada ad una soluzione. Spero di essere riuscita a spiegarmi. Qualora sentisse il bisogno di un colloquio, resto a sua disposizione.
Riprendiamo la rassegna “Pillole di psicologia”. Oggi la dr.ssa Pinton Michela risponde alle domande del pubblico durante la serata “Ansia e Panico” rispetto al ruolo dei familiari di chi soffre d’ansia. Buona visione!
Ci siamo! Restano solo 5 posti per cui affrettatevi a prenotare!
Domani sera 21 Marzo 2019 alle ore 20.45, presso il
Centro Clinico Verona, presenteremo “Una donna sola”, spettacolo teatrale più
dibattito sul tema della violenza domestica.
Nella passata serata intitolata
“Dalla Rabbia alla Violenza. Manifestazioni sane e patologiche nelle relazioni
interpersonali”, il tema della violenza
domestica era stato introdotto e spiegato dal dr. Pasetto Andrea,
concentrandosi sul ruolo e le caratteristiche dell’aggressore. Nello spettacolo
che andremo a proporvi, questo tema sarà presentato invece dal punto di vista della vittima e nel dibattito che seguirà
potremo così chiudere il cerchio assieme agli psicoterapeuti del Centro Clinico
e discutere su questo grave fenomeno di così grande attualità.
Aspettando la serata di
domani, vi riassumiamo la definizione di violenza domestica e alcuni dati
statistici relativi così come erano stati esposti dal dr. Pasetto Andrea.
Si definisce violenza
domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno
di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo
paura e limitandone la libertà personale.
Le ricerche a cura di D. Misso,
R.D.Schweitzer, G.Dimaggio del 2017 ci dicono che:
in Italia circa 1 donna su 3 tra i 16 ed i 70 anni riferisce
di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della
propria vita (13,6% delle donne
intervistate mentre il 26,4% ha
subito violenze psicologiche);
i partner attuali o ex
partner commettono le violenze più gravi (il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente);
nella comunità
internazionale il 38% delle donne
uccise lo sono per mano del proprio compagno.
I
dati statistici ci dicono che:
unicef (2006) stima
che tra il 40 ed il 70% dei
mariti o compagni che agiscono violenza, sono violenti anche con i figli;
secondo ISTAT 2015
quando le vittime di violenza fisica o sessuale da parte di un partner hanno
figli al momento della violenza i bambini
assistono o sono comunque coinvolti nel 60,3% dei casi e subiscono violenze dirette dal padre nel 25%
dei casi.
Ciò ci fa capire che la violenza domestica e un fenomeno mondiale e che
è sempre esistito. Coinvolge ogni estrazione sociale e livello culturale e negli ultimi decenni è passato dalla sfera
privata a quella pubblica.
Mancano pochi giorni alla serata del 21 Marzo 2019 in cui presenteremo “Una donna sola”, spettacolo teatrale più dibattito sul tema della violenza domestica, presso il Centro Clinico di Verona.
Nella passata serata intitolata “Dalla Rabbia alla Violenza. Manifestazioni sane e patologiche nelle relazioni interpersonali” è stato introdotto il tema della violenza domestica che, nello spettacolo che andiamo a proporvi, offrirà un nuovo punto di vista, quello della vittima, di cui poi potremo discutere tutti insieme.
Nel frattempo, per farvi capire quale può essere il tipo di escalation che porta dalla rabbia alla violenza, vi proponiamo lo spezzone di un film in cui si evidenzia la violenza verbale, quella psicologica, quella fisica e quella assistita che sono stati descritti nel precedente post. Il video è in lingua spagnola ma basta osservare le espressioni facciali e i comportamenti degli interpreti per comprendere gli stati mentali. E’ un video di forte impatto emotivo ma molto chiarificatore. Buona visione e vi aspettiamo Giovedì per una rappresentazione altrettanto emozionante!
In attesa
della serata del 21 Marzo 2019 in cui presenterò “Una donna sola”, spettacolo
teatrale più dibattito sul tema della violenza domestica, presso il Centro
Clinico di Verona, vi riassumo gli argomenti principali della passata serata
introduttiva intitolata “Dalla Rabbia alla Violenza. Manifestazioni sane e
patologiche nelle relazioni interpersonali”. Oggi riassumiamo l’intervento della dr.ssa Francesca Gamba che ha spiegato
che cos’è la violenza in tutte le sue declinazioni.
Il termine
violenza significa violare, infrangere, calpestare, abusare, costringere, prevaricare, maltrattare e deriva dal termine latino “violentus”, colui che usa in modo irrazionale la forza al fine di imporre
la propria volontà e costringere alla sottomissione. Nell’ambito del diritto è stabilito che chi commette
violenza sfrutta spesso un’asimmetria di potere e diventa carnefice nei
confronti di una vittima.
Sono stati identificati diversi tipi di violenza
che andiamo a definire nello specifico:
Violenza verbale/psicologica = è un insieme di atti, parole o sevizie morali, accuse, offese, critiche, minacce e intimidazioni utilizzati come strumento di costrizione e di oppressione per obbligare gli altri ad agire contro la propria volontà;
Violenza fisica = tutti i maltrattamenti fisici esercitati con atti di forza materiale su un’altra persona come spintonare, costringere nei movimenti, sovrastare fisicamente, rompere oggetti come forma di intimidazione, sputare contro, dare pizzicotti, mordere, tirare i capelli, gettare dalle scale, cazzottare, calciare, picchiare, schiaffeggiare, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche, privare del sonno, sequestrare, impedire di uscire o di fuggire, strangolare, pugnalare, uccidere;
Violenza sessuale = è un atto commesso da chi usa in modo illecito la propria forza, la propria autorità o un mezzo di sopraffazione per costringere altri con prevaricazione o minaccia (esplicita o implicita) a compiere o a subire atti sessuali contro la propria volontà;
Violenza economica = comprende forme di controllo economico come il sottrarre o impedire l’accesso al denaro ad altre risorse basilari, sabotare il lavoro dell’altro, impedire opportunità educative o abitative, costringere in una situazione di dipendenza o far sì che l’altro non abbia i mezzi economici per soddisfare i propri bisogni di sussistenza e quelli dei figli. Tali strategie privano della possibilità di decidere autonomamente e rappresentano uno degli ostacoli maggiori nel momento in cui ci si sente pronti per uscire dalla situazione di maltrattamento.
Violenza collettiva = violenza sociale, politica e/o economica commessa da gruppi ampi di individui o da interi stati con lo scopo di portare avanti particolari istanze sociali. Include, ad esempio, crimini dettati dall’odio compiuti da gruppi organizzati, atti terroristici, mobbing, guerra e conflitti violenti a essa collegati, interruzione dell’attività economica e divieto di accesso ai servizi essenziali;
Violenza assistita = esperienza vissuta da un minore di una qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulti e minori.
La violenza, di qualsiasi tipo essa sia, ha un
alto potenziale traumatico con effetti duraturi e profondi. Vediamo quali:
svariati sintomi
psicopatologici che si possono spesso inquadrare nel disturbo post-traumatico
da stress, gravi amnesie e disturbi dissociativi;
problemi di sviluppo
cognitivo e psicomotorio nei bambini;
alta frequenza, durata
e intensità di emozioni spiacevoli come la vergogna, il senso di colpa (vittime
di abuso sessuale) e l’ansia;
sensazione di avere la
mente invasa per cui il mondo viene letto e interpretato attraverso gli occhi
del carnefice e non più secondo il proprio personale punto di vista;
problemi legati al
sonno, all’alimentazione e alla sessualità;
isolamento sociale e
problemi di socializzazione;
ferita dell’autostima
e diffidenza.
Ci teniamo infine a
dare un resoconto delle numerose conseguenze negative a cui possono essere
esposti i minori in caso di violenza assistita. Alcuni esempi sono:
esposizione all’irritabilità dei
genitori;
uso del minore a scopo di
auto-protezione;
pratiche educative confusive;
esposizione allo stress genitoriale;
apprendimento di modelli relazionali
abusivi;
negazione degli effetti e/o legittimazione
della violenza;
inversione dei ruoli secondo cui il
bambino assume il ruolo di partner o di genitore dei suoi genitori;
trascuratezza fisica ed emotiva;
isolamento sociale ed emozioni di
vergogna o colpa per dover custodire il segreto su ciò che accade.
In attesa della serata del 21 Marzo 2019 in cui presenterò “Una donna sola”, spettacolo teatrale più dibattito sul tema della violenza domestica, presso il Centro Clinico di Verona, vi riassumo gli argomenti principali della passata serata introduttiva intitolata “Dalla Rabbia alla Violenza. Manifestazioni sane e patologiche nelle relazioni interpersonali”. Oggi riassumiamo l’intervento della dr.ssa Francesca Gamba che ha spiegato che cos’è l’aggressività in tutti i suoi aspetti peculiari.
Il termine aggressività deriva dal latino “adgredior” che racchiude molteplici significati come avvicinarsi, assalire, accusare, intraprendere, incominciare. Da allora in poi il termine aggressività ha sempre compreso sia connotazioni molto negative a quelle positive come l’autoaffermazione, la vitalità e il successo. Filosofia, psicologia e criminologia dibattono da sempre sul concetto di aggressività e spesso si basano su impostazioni teoriche-posizioni discordanti nel definirla tanto è vero che sono state definite due distinte forme di aggressività:
AGGRESSIVITÀ OSTILE E STRUMENTALE
AGGRESSIVITÀ COME ATTEGGIAMENTO INTRAPSICHICO E COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
Altri criteri che sono stati dibattuti nel definire l’aggressività sono:
Intenzionalità
o accidentalità
Presenza o
meno di conseguenze dolorose sulla vittima
Volontà o
meno di sottomettere e di predominare
Aggressività fisica e/o verbale
Aggressività diretta e/o indiretta
L’aggressività può inoltre essere presente a
livelli di intensità e gravità diversi in:
Una reazione aggressiva
Una azione aggressiva
Una attività aggressiva
Il contesto socioculturale può influire sulla definizione di aggressività, tanto è vero che in alcuni contesti è percepita come un elemento di successo da valorizzare ed è per questo accettata, mentre in altri contesti è del tutto contrastata e inibita.
Vi sono visioni e opinioni diverse anche rispetto alle cause dell’aggressività. Secondo gli approcci disposizionali l’aggressività è vista come un istinto naturale, primario, necessario al soddisfacimento dei bisogni primari e con una funzione evolutiva e regolatrice. Secondo gli approcci situazionisti le cause dell’aggressività hanno a che fare con l’ambiente in cui ci si trova a vivere.
Dalle ricerche di neurobiologia sappiamo che le zone del cervello connesse con l’aggressività sono l’Amigdala e la Corteccia prefrontale e che è correlata con certi neurotrasmettitori e ormoni sessuali.
La corteccia orbito frontale sembra essere
correlata con l’aggressività di tipo reattivo-impulsivo mentre l’amigdala
sembra essere correlata con l’aggressività di tipo freddo.
Per concludere la definizione di aggressività possiamo dire che da un punto di vista relazionale il comportamento aggressivo è tipico della persona che tenta di soddisfare unicamente i propri bisogni prevaricando gli altri, che ritiene di essere sempre nel giusto, addossa agli altri la responsabilità dei propri errori ed è irremovibile rispetto alle proprie posizioni. L’obiettivo generale è quello di averla vinta a tutti i costi. Un individuo è aggressivo quando in un contesto di relazione con una o più persone: si impone lasciando poco spazio all’altro; non ammette di aver sbagliato; non è interessato e non rispetta bisogni opinioni, desideri, emozioni dell’altro; è ostile e imprevedibile.