Ieri si è concluso il progetto di prevenzione al bullismo e cyberbullismo da me condotto nelle scuole primarie di un Istituto Comprensivo.
I temi trattati riguardavano le caratteristiche del fenomeno bullismo, i diversi ruoli e vissuti emotivi di chi è coinvolto in questo tipo di situazioni e alcune possibili strategie di fronteggiamento.
Il tutto è stato trattato in forma di gioco vista l’età dei bambini ma i contenuti sono arrivati tutti.
Il riscontro da parte di alunni e insegnanti è stato molto positivo e per questo ringrazio tutti. Ringrazio i bambini per il loro entusiasmo e perchè sono una scoperta continua per me e ringrazio le insegnanti per la loro attenzione al tema e per il sostegno che mi hanno dato.
Questa esperienza positiva ha rinforzato in tutti l’idea che certi interventi non solo siano utili ma necessari e che bisognerebbe dedicarci più tempo e risorse di quanto sia stato fatto finora.
E’ ciò che ci siamo augurati tutti e chissà, forse il prossimo anno scolastico riusciremo a fare ancora meglio!
Intanto l’anno scolastico volge al termine ma RESTATE CONNESSI!
Ciao a tutti, nell’articolo della scorsa settimana, prendendo spunto da una lettura del libro “Cuore”, avevo messo a confronto alcuni aspetti della scuola di oggi con quella di allora. Nello specifico era emerso che l’istinto di accudimento e protezione delle mamme di fine ‘800 non è molto diverso da quello delle mamme di oggi. A seguito di questa constatazione era però sorta una domanda con cui ci eravamo lasciati: “se i genitori di allora erano apprensivi e protettivi come quelli di oggi perché ultimamente non si fa che discutere sul fatto che si intromettono troppo nella vita scolastica dei loro figli? Vedi ad esempio le chat di classe o le ingerenze sulla didattica o i metodi di insegnamento! Oltre un secolo fa accadeva la stessa cosa oppure al giorno d’oggi questa situazione si è allargata e diventata più pervasiva?”
È difficile fare un confronto tra scuola di fine ‘800 e scuola del XXI° secolo perché i fattori da analizzare sono molteplici ma sempre nel libro “Cuore” ho letto un altro passo che mi ha fatto riflettere e che forse potrebbe avvicinarci ad una risposta. Ve lo riporto di seguito.
“Rispetta, ama il tuo maestro, figliuolo. Amalo perché tuo padre lo ama e lo rispetta; perché egli consacra la vita al bene di tanti ragazzi che lo dimenticheranno; amalo perché ti apre e t’illumina l’intelligenza e ti educa l’animo………Ama il tuo maestro perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari……che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente”.
Ciò che mi ha colpito in particolare di questo passo è la frase: “amalo perché tuo padre lo ama e lo rispetta”. Credo che sentimenti come amore e rispetto siano la base per costruire un rapporto di stima e fiducia con un’altra persona e se si riesce a far questo allora è possibile affidarsi con sicurezza nelle mani dell’altro. Rispetto, amore, stima sono quindi ingredienti fondamentali per costruire un rapporto di fiducia, un’intesa e uno scopo comune tra genitori e insegnanti. Credo siano le condizioni necessarie per permettere ai genitori di affidare l’educazione dei loro figli ai maestri che incontrano a scuola.
Nel passo che ho citato, il padre che parla, crede fermamente e si fida dei maestri e dell’istituzione scuola. Forse sono proprio tutti questi sentimenti (rispetto, stima, amore, fiducia) che fanno sì che un genitore non si intrometta, non interferisca o non invada troppo l’area di competenza di un insegnante ma lasci fare in piena sicurezza, fidandosi dell’operato di chi è più esperto.
Allora a questo punto pongo un’altra domanda: “i genitori di oggi provano gli stessi sentimenti di cui si parla nel passo che citato? I genitori di oggi si fidano ancora dei maestri e dell’istituzione scolastica?”
Devo ammettere che, grazie alla possibilità che ho di confrontarmi con tutti gli interlocutori dell’universo scuola, a volte ho l’impressione che questi sentimenti vengano un po’ a mancare, che il patto educativo tra scuola e famiglia si perda un poco. Quindi la domanda la giro a voi: “cari genitori non vi fidate più degli insegnanti? E se sì, perché? E che ricadute ha questa mancanza di fiducia sulla vita scolastica di vostro figlio?”
Sono tante domande che lascio aperte, me ne rendo conto ma sono domande importanti su cui è bene riflettere a lungo per trovare delle risposte. Forse condividendo le varie opinioni qualche risposta si può trovare perciò vi invito a scrivere, commentare, condividere i vostri pensieri e nel frattempo……restate connessi!
dopo la pausa delle festività natalizie torno a scrivere qualche mia riflessione su questa pagina.
Qualche tempo fa, a seguito della partecipazione ad una conferenza sul valore educativo del libro “Cuore”, ho pensato di rileggerlo, dopo tanti anni, con uno sguardo diverso. Infatti sto cercando di fare un confronto tra la scuola di allora e quella di oggi.
È ovvio che dopo oltre un secolo la scuola sia cambiata ma vorrei scoprire se qualche punto in comune è rimasto, se il cambiamento è stato sempre in positivo e se qualcosa che andato perduto, forse sarebbe meglio recuperarlo.
A proposito di qualcosa che non è cambiato, nello scorrere le pagine ho trovato questa frase: “Povere maestre! E ancora le mamme a lagnarsi: come va, signorina, che il mio bambino ha perso la penna? Com’è che il mio non impara niente? Perché non dà la menzione al mio che sa tanto?…”
Che sorpresa, non me l’aspettavo! Anche le mamme di fine ‘800 erano apprensive e protettive come quelle di oggi. Pensavo invece si comportassero diversamente, che avessero una sorta di sacro timore reverenziale verso le istituzioni per cui evitassero di fare richieste o addirittura lamentele agli insegnanti. E invece, a quanto pare, “tutto il mondo è paese” e le mamme sono sempre mamme in qualunque posto e in qualunque epoca. L’istinto di protezione e accudimento verso i propri figli è sempre lo stesso.
Ma se questo aspetto non è cambiato nel corso del tempo, allora perché oggi si fa un gran parlare del fatto che i genitori si intromettono troppo nella vita scolastica dei loro figli?
Spesso si sente parlare delle “terribili chat di classe” dove i genitori discutono animatamente contro questa o quella decisione dell’insegnante o della scuola, di consigli di classe o di istituto che diventano delle sorte di trincee, di difesa ad oltranza del singolo alunno anche di fronte alle evidenze. Insomma sembra che in molti casi genitori e insegnanti si trovino su fronti opposti. Questo succede come accadeva oltre un secolo fa o la situazione è peggiorata, è diventata più generalizzata e pervasiva?
Voi che leggete cosa ne pensate? C’è qualche genitore tra voi che vuole esprimere la sua opinione?
Io ho cercato una risposta in altre pagine del libro e forse l’ho trovata ma ve ne parlerò nel mio prossimo post. Intanto ci rifletterei insieme a voi e come sempre vi raccomando….restate connessi!
prendendo spunto da una conferenza sulla psicologia scolastica di qualche mese fa, oggi vorrei parlarvi dell’importanza che ha la relazione che si instaura tra un insegnante e un alunno per l’apprendimento.
Numerosi studi attestano che la costruzione di una buona relazione interpersonale tra insegnante e alunno ha delle ricadute positive sull’apprendimento perché migliorano aspetti come l’attenzione, la comprensione, l’interesse e la motivazione allo studio e così via. La costruzione di una buona relazione insegnante-alunno dovrebbe essere quindi la base di partenza su cui impostare la didattica.
Purtroppo non è sempre facile instaurare una buona relazione interpersonale perché entrano in gioco diversi fattori individuali, psicologici, ambientali e culturali che possono porsi come ostacoli a questo obiettivo.
In questo articolo vorrei focalizzare l’attenzione sull’insegnante e su come può agire per creare e mantenere una buona relazione con i suoi alunni.
Non è un compito facile perché l’insegnante si trova immerso in un contesto plurale e non in un rapporto diadico che pure dovrebbe cercare. Inoltre può essere trascinato dal susseguirsi degli eventi e osservare ciò che accade dal suo unico punto di vista, per citare solo alcune difficoltà.
Per ovviare a questi ostacoli uno psicologo scolastico potrebbe offrire la guida e il sostegno necessari per intraprendere la strada giusta, per migliorare aspetti come la reciprocità, la sensibilità, la sincronia da ambe le parti.
Gli interventi che potrebbero essere messi in atto sono molteplici:
Si potrebbe lavorare sulla consapevolezza di sé in termini di emozioni, pensieri e comportamenti che si hanno nei confronti di un alunno. Le emozioni e i sentimenti che si provano verso un alunno hanno un impatto fondamentale sul modo di relazionarsi nei suoi confronti. Conoscere ciò che si prova permette di guidare il proprio comportamento;
Si potrebbe lavorare sulla consapevolezza del proprio comportamento verbale e non verbale per essere sicuri di non inviare messaggi contradditori o negativi;
Si potrebbe lavorare sullo sviluppare una visione dell’alunno basata su episodi specifici piuttosto che su un’idea generale ed avere un occhio più flessibile e aperto rispetto a tutte le caratteristiche dell’alunno stesso, senza focalizzarsi troppo solo su alcuni aspetti;
Si potrebbe lavorare per migliorare il perspective taking, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri e sulla teoria della mente, ovvero la capacità di leggere la mente dell’altro;
Si potrebbe lavorare sullo sviluppare o migliorare la mentalizzazione dell’insegnante, ovvero la capacità di interpretare i comportamenti propri e altrui.
Come potete capire si potrebbe fare molto e i risultati potrebbero essere molto positivi. Per questo motivo continuo ad auspicare che lo psicologo possa diventare un giorno un elemento imprescindibile del sistema scolastico. Spero che condividiate la mia opinione e che sosteniate con me questa causa.
Per ora mi fermo qui e vi rimando al prossimo articolo. Restate connessi!
oggi riprendo e concludo l’articolo della scorsa settimana sull’utilizzo delle nuove tecnologie dopo la mia esperienza negli istituti scolastici lo scorso anno. Avevo concluso il mio precedente post raccontandovi di quanto i ragazzi siano abili nel comprendere il funzionamento dei sistemi digitali mentre per parte mia ho potuto mettere in campo competenze di altro tipo. Da ciò l’idea di una collaborazione tra adulti e ragazzi quando si interagisce con questi strumenti.
Questa idea mi è venuta anche perché mi sono resa conto che il modo in cui gli alunni approcciavano ai diversi device appariva del tutto inconsapevole e facile al condizionamento. Per usare una similitudine, immaginate che il web sia una giungla e che i ragazzi siano dei dispersi senza alcun strumento di sopravvivenza.
Per fare degli esempi: 1) la maggior parte di loro non si rende assolutamente conto di quanto tempo passa connesso perché viene risucchiato da un vortice di messaggi, notifiche, video e così via;
2) sono talmente assuefatti al piacere che provocano questi strumenti da non riuscire più a staccarsene o farne a meno;
3) il mondo virtuale è talmente compenetrato nel mondo reale che finiscono con l’essere continuamente distratti e influenzati da ciò che succede nel mondo virtuale, creando una sorta di interferenza continua;
4) difficilmente riescono a distinguere ciò che vero da ciò che non lo è, tutto diventa assolutamente credibile solo perché online e ripetuto in maniera ridondante.
Questi sono alcuni esempi di quello che accade ai ragazzi quando sono connessi. Li definirei “disarmati” perché mancano di competenze importanti e utili per approcciare nel modo corretto al mondo virtuale: parlo della capacità di darsi delle regole di comportamento, parlo della capacità di discriminare e scegliere nel mare magnum della rete ciò che è attendibile, utile, interessante e di valore da ciò che non lo è, parlo di pensiero critico. Attenzione però, perché non ne faccio una colpa ai ragazzi se non possiedono o non hanno ancora sviluppato queste capacità e competenze. Il fatto è che serve un certo grado di maturità per averle e semplicemente loro ancora non ce l’hanno perché stanno crescendo, sono in fase di formazione. Sarebbe come chiedere ad un neonato di alzarsi in piedi e fare una corsa. Non è possibile perché non ne ha le capacità.
Si tratta quindi di comprendere che un minore non ha ancora le abilità per gestire gli strumenti tecnologici.
Quale la soluzione allora? Li vietiamo finché non hanno raggiunto la giusta maturità come succede per esempio con la patente di guida?
Assurdo, se non impossibile da realizzare visto che le nuove tecnologie ormai fano parte integrante del nostro quotidiano e indietro non si può tornare. In alternativa allora ritorno alla mia idea di partenza: la collaborazione tra adulti e ragazzi. Finché un minore non ha acquisito le abilità necessarie a gestire in autonomia i dispositivi tecnologici dovremmo essere noi adulti ad accompagnarlo e aiutarlo nel mondo virtuale esattamente come da sempre facciamo nel mondo reale.
Ma è a questo punto che sorge un’altra domanda: “Quanti di voi adulti svolgono davvero questa funzione? Quanti stanno a fianco per osservare, informare, spiegare, aiutare, parlare, sorvegliare, sostenere finché non è arrivato il momento di lasciare andare?”
Posso già rispondere a questa domanda: pochissimi!!!
Cari genitori, insegnanti, educatori etc. etc. a questo punto non mettetevi sulla difensiva per quanto sto dicendo perché questo non è un mio punto di vista ma l’affermazione di almeno un centinaio di ragazzi della scuola secondaria di primo grado a cui ho posto la stessa domanda.
Tranne qualche raro caso, quasi tutti mi hanno risposto che il tempo online lo passano sempre da soli, senza nessun adulto che se ne occupi o stia loro accanto. Se ciò corrisponde al vero e non ho motivo di dubitarne ho un’altra domanda da porvi: “Perché noi adulti non ci stiamo occupando dell’educazione dei minori all’uso delle nuove tecnologie? Oppure perché deleghiamo ad altri tale funzione come ad esempio la scuola? Non ci rendiamo conto neanche noi di quanto e come usano tali strumenti, dei rischi a cui possono andare incontro? Non siamo abbastanza pronti, informati, preparati a svolgere tale compito o è troppo difficile e quindi stiamo rinunciando?”
Qualunque sia il motivo, rinunciare o delegare non mi sembra una buona soluzione o per lo meno la trovo molto rischiosa. Per questo la mia proposta continua ad essere la stessa: “Armiamoci e partiamo” ovvero prepariamoci, informiamoci, studiamo per insegnare, aiutare e stare davvero accanto alle nuove generazioni nell’utilizzo dei dispositivi digitali.
A, Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, che ha scritto diversi libri sull’argomento, ha detto: “Voi consegnereste a vostro figlio minorenne le chiavi di una Ferrari e gli direste di andare a far un giro?”
Credo che la maggior parte di voi risponderebbe ovviamente di no. Ma allora perché consegnare nelle mani di un minore un dispositivo dalle infinite possibilità senza istruzioni per l’uso e senza la giusta preparazione?
Io nel mio piccolo, ho scelto di svolgere questo compito e fare il possibile per stare a fianco ed aiutare. Ora lascio a voi fare le dovute riflessioni sull’argomento e valutare se e come assolvere al ruolo educativo anche in questo ambito. Se vorrete condividere il vostro pensiero mi farà molto piacere.
E per la serie “Sempre sul pezzo”, questo è l’ultimo webinar a cui ho partecipato.
Il messaggio più importante che mi sono portata a casa e che vorrei condividere con tutti, insegnanti, dirigenti, personale scolastico e genitori, è che anche noi psicologi siamo stati travolti da questa pandemia come tutti voi e ne paghiamo le conseguenze come chiunque altro. Nonostante questo entriamo nelle scuole con il desiderio e la volontà di portare il nostro aiuto e sostegno a tutti. Abbiamo bisogno però anche noi del vostro aiuto e della vostra collaborazione. Il peso di tutti i problemi non può essere scaricato sulle spalle di quell’unico psicologo che è riuscito ad entrare quest’anno a scuola. Cerchiamo invece di fare squadra, di collaborare, di sostenerci a vicenda e di fare ognuno la sua parte e sicuramente le cose andranno meglio!
Nella mia esperienza di quest’anno scolastico ho vissuto sia la prima che la seconda situazione. Ovviamente nel secondo caso le cose sono andate per il verso giusto sin dai primi passi, nel primo ho dovuto far capire che, come al solito, “non possiedo bacchette o poteri magici” per risolvere i problemi. Ma devo ammettere che sono stata compresa subito, bastava solo parlarsi apertamente e spiegarsi e tutto è andato a buon fine.
Quindi il mio bilancio è assolutamente positivo finora. Manca ancora un mese e mezzo alla fine, il lavoro è tanto così come la fatica, ma le soddisfazioni sono molte di più, quindi vento in poppa (se non ci fermano di nuovo) e si viaggia dritti verso l’orizzonte!
Qualche giorno fa ho
pubblicato la prima parte di un articolo che si concludeva con alcune domande.
Riprendo da lì e concludo con la seconda e ultima parte di questa mia
riflessione.
……Perché si sono dovuti
semplificare così tanto i compiti dei bambini, tanto da non scrivere più
neanche un semplice pensierino? La scrittrice ha ipotizzato che forse non abbiamo più tanta fiducia nelle
loro capacità, che semplifichiamo la loro vita per evitare il più possibile
errori e, sia mai, insuccessi o fallimenti. Ha introdotto il concetto di “genitori spazzaneve”, ossia quei
genitori che cercano in tutti i modi di spianare la strada da qualsiasi
ostacolo ai loro figli. Ma non è che evitando loro qualsiasi frustrazione in
realtà non li prepariamo ad affrontare la vita che di per sé è fatta anche di
ostacoli, problemi, imprevisti e così via? Non è che in questo modo li rendiamo
solo più insicuri? Io credo proprio che sia così. Gli ostacoli servono per crescere, servono per mettersi alla prova e
verificare se si hanno le capacità di superarli, servono per farci provare
piacere, soddisfazione e senso di autoefficacia quando riusciamo a superarli e
se per caso sbagliamo, servono comunque per capire l’errore e non ripeterlo,
per rialzarsi e riprovare. Questo è crescere! Quindi cari genitori
spazzaneve siete così sicuri di voler privare i nostri figli di questa
possibilità? Siete davvero sicuri di non causare un danno peggiore poi,
evitando una frustrazione oggi? Io quantomeno ci penserei a lungo.
Arriviamo alle ultime due
voci: il mito della creatività e la perdita
di una direzione del compito educativo. Nel corso degli anni a più riprese
si sono succedute teorie educative che partivano dal presupposto che
l’obiettivo educativo principale fosse lo sviluppo delle competenze attraverso
le capacità creative del bambino. Premesso che si tratta di teorie che si sono
tradotte in metodi didattici validati ed efficaci, secondo l’autrice però, in
alcuni casi, queste teorie sono state un po’ travisate e di conseguenza la
metodologia non è stata praticata nel modo più corretto. Un errore comune è quello di confondere la creatività con la libertà di
fare quello che si vuole. Crescere e imparare in un contesto educativo creativo
non significa non avere regole. Perfino nel Metodo Montessori, uno dei
primi a basarsi su questo assunto, i bambini erano educati ad essere puliti,
ordinati, ad avere rispetto di sé, degli altri e del materiale scolastico. Ciò
significa darsi e condividere delle regole, che sono quelle della civile
convivenza e che sono quelle che permettono poi di sviluppare la propria
creatività. L’ordine e le regole sono fondamentali per crescere. E chi, se non gli insegnanti, è deputato al
compito dare ordine e regole? Educare significa indicare la strada, fare da
guida, significa assumersi la responsabilità e il rischio di insegnare ciò che
è giusto e sbagliato, quale è il bene e quale è il male. Purtroppo lo scopo
dell’educazione oggi si scontra con l’idea di libertà, cioè con la convinzione
che ognuno debba essere libero di fare le proprie scelte e così anche i bambini.
In questo modo però si abdica al ruolo di educatore e non si trasmettono più
valori importanti. E ancora mi vengono delle domande. Siamo sicuri che un
bambino sappia da solo scegliere autonomamente la sua strada quando non gli abbiamo
trasmesso alcun valore? E’ davvero così sbagliato indicare la strada e
aspettare che un bambino diventi maturo abbastanza per poter scegliere da solo?
Io sono cresciuta in un periodo in cui erano gli adulti di riferimento a
scegliere per me e a dirmi cosa potevo o non potevo fare, cosa era giusto e
cosa sbagliato. Magari non sarò stata sempre d’accordo ma non ho mai vissuto in
maniera traumatica l’educazione che mi veniva impartita, né ho mai sofferto per
la limitazione della libertà. Semplicemente mi fidavo e affidavo a chi mi
voleva bene, si occupava di me e aveva più esperienza di me. Ciò non mi ha
impedito, crescendo di sviluppare un mio pensiero e, da adulta, di fare le mie
scelte, a volte in linea con i valori che mi sono stati trasmessi e altre no. E
se riguardo indietro, sono grata a mia madre, alla mia maestra, ai miei nonni
che in alcuni casi hanno scelto per me anche contro il mio parere, perché mi
hanno preservato da errori che avrei sicuramente commesso. Ringrazio i miei
educatori per essersi assunti loro la responsabilità e, perché no, anche il
rischio di indicarmi la strada, perché senza di loro non sarei quella che sono
oggi e credo, modestamente, che abbiamo fatto un buon lavoro.
Bene credo di aver dato tanti spunti su cui riflettere perciò, vi lascio a vostri pensieri che se vorrete condividere, mi farà molto piacere. Buona giornata a tutti e al prossimo post!
pesentazione libro susanna tamaro fiera delle parole padova
Recentemente ho partecipato a
diverse conferenze della “Fiera delle parole” che si è tenuta a Padova nel mese
di Ottobre. Tra le tante ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di
Susanna Tamaro e vorrei condividere con voi quello che ho capito e le mie
riflessioni.
Nel libro “Alzare lo sguardo” di Susanna Tamaro si sviluppa un confronto tra la scuola di alcuni anni
fa, cioè di quando lei era una studentessa, e la scuola di oggi. L’autrice si trova
spesso a frequentare gli istituti scolastici visto che ha scritto diversi libri
per bambini.
S. Tamaro ha presentato
questo libro partendo da una sua considerazione personale: secondo la sua
esperienza i bambini sembrano molto più
infelici, nevrotici e pieni di problemi psicologici rispetto ad un tempo e la
scuola soprattutto la primaria sembra ormai in caduta libera. Si è quindi
interessata di comprendere o ipotizzare quali
possono essere le cause di questa situazione e ne ha proposte alcune: presenza
di diversi insegnanti già alla scuola elementare, ipersemplificazione dei
compiti, presenza di genitori “spazzaneve”, “mito della libertà creativa” dei
bambini e perdita di una direzione precisa nel compito educativo.
Ora provo ad entrare nel
dettaglio e ad esprimere un mio pensiero.
Secondo S. Tamaro la scuola
primaria è un passaggio di crescita fondamentale per i bambini e, in passato, la
presenza di un’unica maestra per tutti cinque gli anni costituiva un punto di
riferimento importante. La maestra unica era una figura di riferimento
autorevole e autoritaria per tutti, bambini e genitori. Il termine “autoritaria”,
all’epoca, non aveva quell’accezione negativa che ha oggi e per il quale non
può più essere utilizzato, ma serviva ad indicare una persone che aveva
capacità e potere di gestione della classe e che veniva rispettata e ascoltata
da tutti. Magari i bambini potevano avere un po’ di timore reverenziale di
fronte a questa figura ma, personalmente credo fosse sano e giusto. Oggi è
evidente che il sistema scolastico è molto cambiato per cui è utopico pensare
di ritornare alla maestra unica ma condivido l’idea che una figura di
riferimento ci debba essere, qualcuno che segua i bambini per tutta la scuola
primaria, qualcuno che li possa quindi conoscere in maniera approfondita e che
possa quindi aiutarli e guidarli nel modo migliore. Non condivido affatto
questo continuo cambio di insegnanti non
solo da un anno all’altro ma a volte anche in uno stesso anno scolastico.Questi continui e repentini cambiamenti
credo non siano in linea con il bisogno di stabilità e sicurezza dei bambini.
Per quanto riguarda l’ipersemplificazione didattica,
l’autrice ha raccontato di aver preso visione dei compiti che svolgono i
bambini e dei libri di testo sui quali studiano e ha riscontrato un grande
differenza rispetto al passato. I libri
risultano caotici, pieni di immagini, di schemi, di brevissimi riassunti,
praticamente la copia venuta male del computer. Ho avuto modo di osservarli
anch’io e la sensazione che ho provato è di frammentazione delle idee. I
concetti ci sono pure ma non trovo un filo logico, una connessione, un senso di
coesione del testo e chi riesce a fare questo tipo di elaborazione? Può
riuscirci un bambino? I testi che ricordo io, magari potevano essere meno
accattivanti da un punto di vista grafico e con meno immagini, ma contenevano
dei testi unici, completi, esaustivi dai quali tu dovevi ricavare le
informazioni importanti.
Per non parlare che alcune tecniche di apprendimento sono sparite: pensiamo per esempio alle vecchie cornicette, alle pagine e pagine di lettere da scrivere in bella grafia (la calligrafia), al corsivo, alla scrittura dei pensierini. Adesso esistono le schede! Quintali e quintali di schede precompilate (e tralascio il fastidio per lo spreco di carta) dove i bambini sono tenuti solo ad inserire delle parole o delle crocette. Perché le vecchie tecniche sono sparite? Sono così obsolete?! S. Tamaro invitava a riflettere però sull’utilità di alcuni di questi strumenti di apprendimento e io concordo. Per esempio cornicette e calligrafia sono esercizi fondamentali per lo sviluppo della coordinazione oculomotoria, della motricità fine e del cervello in generale. Avete notato quanti bambini oggi non sanno tenere bene una penna in mano? Avete notato quanti non scrivono più in corsivo? Vi siete chiesti quali possono essere le conseguenze di queste scelte? E perché si sono dovuti semplificare così tanto i compiti dei bambini, tanto da non scrivere più neanche un semplice pensiero?
Le risposte a queste domande e altre riflessioni le troverete nella seconda parte di questo articolo che pubblicherò presto. Stay tuned!
Negli articoli più recenti mi
sono soffermata sul ruolo dello psicologo
scolastico e sui suoi possibili interventi. Un ambito di lavoro che ha
preso sempre più piede negli ultimi anni riguarda i progetti di integrazione nelle classi multiculturali. Vediamo nello
specifico cosa comporta occuparsi di questo particolare problema.
Partiamo con una premessa. Dati del MIUR ci dicono che il numero
di bambini stranieri a scuola è
costantemente in crescita. Negli ultimi anni c’è stato un incremento del 10% in tutto il territorio italiano e in particolare
nel centro-nord. Spesso si tratta di bambini nati in Italia ma che si trovano
ad affrontare una crisi di appartenenza tra il contesto familiare/cultura
d’origine e il paese dove vivono.
Gli insegnanti che lavorano in classi multiculturali
si trovano ad affrontare diversi tipi di problemi che non riguardano solo la lingua ma anche molti
altri aspetti come la storia d’immigrazione famigliare, i problemi attraversati
dalle famiglie d’origine e la cultura fatta di regole, usanze, tradizioni,
modalità di interazione, credenze, percezioni, assunzioni, valori e priorità
che possono essere molto diverse dalle nostre. Bisogna sempre tener presente
che le pratiche culturali si
ripercuotono sulle esperienze relazionali e sociali. Ciò significa che gli
insegnanti si trovano davanti ad un contesto
ricco di sfide che richiede grande preparazione, tecniche speciali e molta
pratica.
Le domande che bisognerebbe porsi
quando si costruisce un intervento di integrazione culturale dovrebbero essere:
Quali sono le
caratteristiche di questo bambino? (Perché ogni bambino è a sé)
Come è composta
la sua famiglia e quali sono le caratteristiche della famiglia?
Quali legami ha
io bambino con il suo mondo d’origine?
Che relazione c’è
tra la famiglia e la scuola? Chiusura e difesa, assimilizzazione e accettazione
oppure cooperazione e integrazione?
Anche in questo tipo
d’interventi lo psicologo può
affiancarsi agli insegnanti e sostenerli nel loro compito. Sono già state
indicate da tempo delle linee guida sia
europee che italiane da seguire per migliorare il benessere, l’integrazione
e l’apprendimento delle classi multiculturali.
L’obiettivo
di questi progetti è fornire uguali opportunità
a tutti gli alunni secondo le loro specifiche differenze creando strategie
educative adatte ai vari casi.
Lo psicologo ha la funzione
di aiutare gli insegnanti a modificare
curricula, attività didattiche, stili educativi e credenze in relazione ai
singoli alunni che compongono la classe. Bisogna infatti tener sempre presente
che l’apprendimento funziona solo quando
è veicolato da un canale culturale condiviso.
L’unico problema che si presenta solitamente è la scarsità di risorse economiche per cui gli interventi di integrazione scolastica sono brevi e insufficienti rispetto ai reali bisogni della scuola ma, come già ribadito più volte nei miei articoli precedenti, al momento questa è la situazione e questo è il massimo che si riesce a fare. Come sempre tutti speriamo in una riforma che inserisca finalmente lo psicologo a scuola.
Questo argomento mi tocca
personalmente viste le mie esperienze professionali in diverse scuole del
Veneto. Cari lettori, in questo post vorrei aiutarvi a capire quale è attualmente il ruolo dello psicologo in
ambito scolastico e quali sono gli obiettivi a cui la mia categoria
professionale, ma non solo, tende a raggiungere.
L’Ordine degli Psicologi sia a livello regionale che
nazionale da circa vent’anni si sta battendo per l’inserimento dello psicologo
nella scuola italiana. Questo non è
un desiderio solo di noi professionisti ma una richiesta che, secondo le
indagini più recenti, arriva dal 61,3% della popolazione.
Vi faccio una premessa sulla situazione della scuola e sulle possibilità di intervento degli psicologi in questo momento. Dalle interviste agli insegnanti delle scuole italiane emerge sempre di più l’esigenza di un supporto maggiore da parte degli psicologi in relazione all’aumento di alcune difficoltà che riguardano la gestioni di classi sempre più problematiche. I diversi disagi degli studenti finiscono con l’influire pesantemente con lo svolgimento delle normali attività didattiche e quindi con l’apprendimento degli studenti. I disagi manifestati dagli alunni solitamente hanno a che fare con la scarsa tolleranza alle frustrazioni (sempre più diffusa), con l’eccessivo individualismo e con problemi emotivi e comportamentali. A fronte di queste difficoltà i vecchi metodi educativi sembrano non avere più efficacia.
Mentre nella maggior parte dei paesi europei lo
psicologo è regolarmente inserito in ogni scuola come dipendente della pubblica
istruzione, in Italia dal 2017 è aperto al MIUR un tavolo tecnico per valutare
l’ipotesi di fare altrettanto ma al
momento i lavori non sono ancora conclusi e siamo ancora lontani dal varare un
legge in proposito. Per questo motivo, al momento, lo psicologo scolastico in Italia è un libero professionista che lavora
in maniera autonoma e con contratti a progetto di tempi assai brevi. Questo
accade anche in virtù delle scarse risorse che vengono destinate al sistema
scolastico. I progetti di cui si
occupano negli ultimi anni gli psicologi a scuola riguardano: CIC
(sportelli d’ascolto), alfabetizzazione emotiva, educazione all’affettività e
sessualità, bullismo e cyberbullismo, abuso di sostanze e nuove dipendenze,
orientamento ed inoltre la stesura dei BES (bisogni educativi speciali) e la
presa in carico di casi di DSA (disturbi specifici dell’apprendimento).
Potete capire da voi che un intervento così frammentato e limitato
da parte degli psicologi non riesce a supportare adeguatamente le necessità
complesse del mondo scolastico odierno. Ci sarebbe bisogno di una presenza
continua e quotidiana, esattamente come avviene negli altri paesi europei e
l’intervento dello psicologo non riguarderebbe più solo la gestione e
risoluzione di casi specifici ma si potrebbe estendere ad altre attività utili.
Vi voglio quindi esporre una panoramica
di proposte che, come categoria professionale, saremmo disposti a mettere
in campo, qualora ce ne fosse data la possibilità. Le attività che potremmo esercitare nell’ambito scolastico sono:
Formazione degli
insegnanti rispetto ai processi mentali
coinvolti nell’apprendimento e patologie specifiche dell’età evolutiva;
Formazione degli
insegnanti per creare programmi di
potenziamento delle risorse degli alunni e di piani educativi su misura;
Promozione del benessere scolastico e prevenzione del
disagio negli alunni;
Osservazione e
interpretazione delle dinamiche
relazionali all’interno delle classi al fine di favorire la costruzione di
un clima sereno in cui vi sia inclusione e riduzione delle discriminazioni;
Consulenza e
gestione dei rapporti tra scuola e
famiglia.
Secondo noi queste attività
potrebbero essere utili per migliorare l’esperienza di alunni, insegnanti e
genitori nell’ambito scolastico. Voi cosa ne pensate?
Quindi noi psicologi continueremo a batterci perché la nostra proposta diventi leggi e realtà ma abbiamo bisogno del contributo di tutti, di coloro che lavorano nelle scuole, delle famiglie e anche degli studenti per far sì che questo desideri si realizzi. Io nel mio piccolo continuo a fare ciò che posso perché accada presto e voi cosa fate o farete? Se vorrete lasciare un vostro commento o esprimere la vostra opinione, mi farà piacere. A presto con un altro post sulla psicologia scolastica.